lunedì 19 dicembre 2011

e oggi ho fatto i cappelletti.

Questo è   il rito che si lega di più alla tradizione natalizia romagnola ed in particolare è  per me l'ultima delle attività che mi riporta  ai ricordi  della mia infanzia e alla mia famiglia.
Forse con me finirà anche questa tradizione perché i miei figli, per quanto amino trovarseli a tavola, mi sembra che non si pongano proprio  il problema di una tradizione da portare avanti.
Non era pensabile, pur nella povertà più miserabile, non mangiare un piatto di questa pasta ripiena, cotta in brodo di gallina. In realtà c'era solo quella, seguita dalla gallina lessata e patate cotte anch'esse nel brodo, ma per me era un pranzo succulento e atteso . Mi ricordo la sera prima, noi figlie femmine, grandi e piccole, intorno al tagliere al fianco della mamma, intente a chiudere, come in una catena di montaggio questi cappelletti, chiamati così per la forma caratteristica di un cappello.
La mamma tirava la sfoglia, una delle più grandi con una rondella dentellata la tagliava ricavandone dei quadrati abbastanza grandi (3x3 cm o 4x4), perché il cappelletto non non va confuso con il tortellino bolognese, molto  più piccolo e chiuso ad ombelico e soprattutto  riempito con un ripieno  misto di carne e formaggio.
Un'altra delle sorelle più grandine dosava con una forchetta il ripieno (formaggio fresco di mucca, ricotta, noce moscata, tanto parmigiano) posizionandolo sopra al quadrato. In realtà la ricetta originale prevedeva anche una manciata di candito di cedro tritato ma oggi solo in pochi utilizzano questo ingrediente.
Le sorelle di media età  (ricordo che solo noi femmine eravamo 7) facevano a gara a chi ne chiudeva di più,  anche per non fare asciugare la sfoglia che avrebbe impedito una buona chiusura e cercando di non romperli.
Quando il ripieno finiva e rimaneva qualche pezzo di sfoglia, venivano ricavate delle punte  irregolari che  poi venivano fatte cuocere  così, senza niente insieme ai cappelletti, ma la mamma ci raccontava che quelle erano le stelle comete e  per chi, il giorno dopo, se le ritrovava nel piatto, sarebbe stato un segno di fortuna.
Intanto che il "prete" (attrezzo in legno che faceva da supporto allo scaldino contenente la brace) faceva il giro dei letti, prima di andare a dormire noi piccoli preparavamo le letterine di Natale, con disegni fatti da noi e spolverati di brillantini, contenenti le nostre promesse e i nostri  buoni propositi.  La grande tavola veniva preparata già la sera stessa,  con tutti i piatti capovolti, per creare l'effetto sorpresa che il babbo doveva avere nel ritrovare poi le letterine ammucchiate sotto al suo piatto nel momento che si dovevano rigirare per accogliere il brodo bollente. Mio padre stava al gioco, e ad ogni letterina corrispondevano pochi spiccioli donati, ed un bacio dato in realtà solo in quella occasione per una  educazione fatta di pudore e gesti concreti. Mio padre dava il via alle danze, infilzando con la forchetta il primo grosso cappelletto, ed esibendolo con il braccio alzato ripeteva la frase che da sempre e per sempre gli ho sentito dire: "E anche quest'anno, sono riuscito a mangiare i cappelletti", raccontando per l'ennesima volta la storiella a cui si faceva riferimento e cioè  quella di un vecchio signore che a tavola, circondato dai famigliari , nell'atto di dire questa frase e di mettersi in bocca il primo cappelletto, moriva stecchito senza riuscire a completare il gesto. Lui immancabilmente mimava la scena e noi ridevamo  tutti divertiti. In realtà, era semplice felicità  e fame, quello che ogni volta, ci faceva sorridere.